venerdì 26 dicembre 2014

Dimmi di che religione sei, ossia dimmi chi sei

I sette giorni di fitta formazione, precedenti allo svolgimento del  mio servizio in Indonesia, hanno visto il mischiarsi una serie di pensieri agli antipodi.
Tra le primissime raccomandazioni che mi son state fatte vi è stata questa:
se una qualsiasi persona ti chiede la tua religione di appartenenza tu devi rispondergli con il nome di una qualsiasi religione. Tutte vanno bene purché la risposta non sia ateo.
Non ho avuto alcun giudizio relativamente a questa raccomandazione: ho solo notato come all'interno di una formazione questo sia stato un dato di primaria rilevanza nei modi e nei tempi in cui è stato posto. Era forse qualcosa di prevedibile: mi trovavo d'altronde nel paese più popoloso al mondo a maggioranza musulmana e non solo, l’Indonesia tende alla religiosità nel suo più profondo intimo, nella terra stessa.
Una parte di me ha provato, a dire il vero, un piacevole sollievo nell'ascoltare questo messaggio; in qualche modo ero rasserenata perché non avevo bisogno di mentire a quella domanda qualora mi fosse stata posta. La stessa domanda in Italia, agli occhi della maggior parte delle persone che ho conosciuto sin ora, potrebbe assumere un colore beffardo.

Mi presento al mondo indonesiano, giavanese per l’esattezza, e ancora più specificatamente alla famiglia ospitante, al vicinato, al mercato, ai couchsurfer, agli anziani, ai bambini e la preghiera che mi viene rivolta è sempre uguale:
“Di che religione sei?”
 “Ma cristiana o cattolica?”
(nella terminologia indonesiana, diversamente dall'italiano, con cristiano ci si riferisce esclusivamente ai protestanti)
“Vai a messa?”
“In quale chiesa?”
Quasi sempre dopo la prima domanda mi si incomincia a storcere la bocca in quanto sento la pressione di voler essere incasellata in una definizione alla quale non voglio prendere parte.
La mia volontà di non mentire cozza con la voglia di conoscenza di questo popolo che amo tanto.
La religione è senza dubbio l’aspetto che più permea questa cultura, è tessuta nelle sue viscere.
Ricordo una sera di essere uscita con Bapak Sigit  (Sigit è il nome del mio hosting father) ed il resto della mia famiglia ospitante per accompagnare la suocera ad un gruppo di preghiera. Era sera, dunque la Chiesa era chiusa, ma lui aveva parcheggiato giusto sotto l’entrata ove vi era il custode della stessa. Bapak Sigit si rivolge a lui, dice qualcosa che non capisco (in lingua giavanese), poi mi invita ad uscire dalla macchina. Il guardiano mi indica l’ingresso della Chiesa: “Silakan” (prego).
Bapak Sigit aveva chiesto al custode se gentilmente poteva aprire la Chiesa per me dato che non ero mai entrata a pregare in una Chiesa dal mio arrivo in quella famiglia e adesso era tutta a mia disposizione e potevo farlo tranquillamente.
Un atto molto gentile da parte sua, sebbene non richiesto. Il portone della Chiesa era ormai aperto e lui aveva dato la sua benedizione: “adesso puoi entrare e pregare”.
Amo questo popolo, amo la costanza e l’impegno che ciascun membro pone nell'anelare a divenire un buon fedele, giorno e notte, in ogni contesto, con ogni persona.
Bapak Sigit mi ha dato un grande insegnamento negli ultimi giorni prima del mio rientro in Italia, e comunque restano GRANDI per coloro i quali vogliono appartenere a quel cammino specifico, per chi sceglie di mettersi nel binario di una religione perché, benché se ne dica o si speri diversamente, il binario è uno.
Lui voleva divenire un buon musulmano e quindi era tenuto, per suo volere, a rispettare certi precetti e certi orari. Ma era anche il capo famiglia quindi quella stessa retta via doveva farla seguire alla sua famiglia tutta. Io ero ospite e membro della sua famiglia quindi dovevo seguire le regole di quella casa allo stesso modo e non importava se la mattina aspettavo un’ora seduta a fare nulla: loro si svegliavano per pregare alle 04.30 ed io non potevo restare a dormire, non era giusto. E non importava che a 30 anni uno potesse aver avuto la voglia, almeno solo per una volta, di restare fuori con gli amici: alle 21.00 il portone chiudeva per tutti e se restavi fuori era un problema tuo. Dopo l’ultima preghiera della sera le uniche cose concesse nella mia casa erano studiare o dormire, che viste così potrebbero sembrare un castigo. 

In realtà, dopo aver maturato l’intensità e la durezza di questa esperienza che adesso racconto con poche parole, RINGRAZIO quel periodo di castità notturna, di riconciliazione con la notte e con il sonno, di riappropriazione del silenzio e della mia vita. 

-Nel gennaio di quest'anno un uomo di nome Alexander Ann è stato rilasciato dopo 19 mesi di carcere  a seguito di pubblicazioni sul suo blog in cui sosteneva l’inesistenza di Dio con l’accusa di incitamento all'odio religioso.

-Anche i non musulmani usano la parola “Allah” per riferirsi a Dio (si vedano le traduzioni in indonesiano della Bibbia dei cristiani)


-il Parlamento dell'Indonesia mantiene l'articolo 64 il quale limita la scelta della religione esclusivamente ad una delle seguenti: islam, cristianesimo, cattolicesimo, induismo, buddhismo e confucianesimo. La legge indonesiana obbliga i cittadini ad indicare sulla carta d'identità a quale di queste sei religioni si appartenga senza contemplare il restante mezzo milione di persone che appartengono a religioni minori o sono atee esponendoli al rischio di persecuzione.

Interviste fatte a Kamila, donna musulmana che indossa la hijab (il velo) e ad Arya, amico che lavora per la Presidenza.
Dicembre 2014

Domande:
1.       Do you believe that identity is identified with the religion which people belong to?
2.       Do you think that ask “what’s  your religion” in some way  is similar to ask “who you are?”
3.       Why in Indonesia when people know a new person, after few minutes talking,  they asked about which religion the other belong to?
4.       Do you think that people who belong to the same religion are more likely to work in the same projects or institutions?
6.       How much do you think religion influence the culture of your people?
7.       In which way, how the religion is so important in Indonesians lifestyle?
8.       Please, feel free to add additional thoughts or other descriptions if you think fit.

Risposte Kamila:
1.       No, I don't. In my opinion identity is just for identity, I mean in Indonesia identified your religion on identity is for make sure that you’re embrace any religion for national data system and something like that. (goverments archievs)
2.       Not really, but sometimes (for some people) it can be use for  benchmark to assessing a person’s personality. Because sometimes people can recognize a person’s personality  from their outlook, this is the easy way. (example: people will judge a girl with hijab as a good girl or people can judge a guy with a bunch of tattoo and rebel style as a badguy(?))
3.       Really? I think it depends on the people. In my opinion, that is an impolite way to know people ever. Because i think after you knew their religions, sometimes social gap thingy will arise (this is kind of Indonesian tradition). So i never asked “whats your religion” to everybody, its better if i know by my self a.k.a stalking.haha.
4.       My answer is almost the same with number three question, it depends on the people or company or projects itself. Because in Indonesia a lots of people on each religion too strict about their religion, whereas every religion teach us to be respectfull to other people. This kind of big problem here Indonesia. (this is also the answer for number 5)
6.       50:50, for old-era people (my grandparents era), religion 100% influence their culture in every step they take. But its different  in these era, some people just dont care about their religion (although they has a religion).
7.       I dont know how to say, but i think its very important because Indonesia was born as a nation with a strong religion and Indonesia is wbased on Moslem religion.
8.       In my opinion, people that hold/embrace any religion, they will morely have an direction of their life. I mean, they will have a basic reason for what they will doin. And for me, every religion actually teach us the same lesson in life.

Risposte Arya
1. No
2. No
3. Because Indonesia doesnt accepted to atheis person or without God
4. No, I don't think so
5. Before maybe yes, now no
6. Very much
7. Ya because for the Indonesian people religion is the way to make a good life, every religione
8. Please, feel free to add additional thoughts or other descriptions if you think fit.


                                    La mia splendida hosting family 

lunedì 22 dicembre 2014

Quella scuola indonesiana

Sono le 6.30 e la scuola inizia fra mezz’ora.
Ecco la direttrice della scuola dove oggi inizio a lavorare.
In un ingloindonesiano scoordinato mi invita a seguirla al piano superiore dell’edificio.
Sono in piedi dalle 5.00, il sole già picchia che nemmeno nella Valle dei Templi a mezzogiorno del 15 agosto, l’aula ha un odore sgradevole.
Non circola aria, l’umidità mi assale lentamente ed il respiro fa fatica ad entrare ed uscire.
In tutto ciò ho dormito 4 ore, mangiato mezza banana bollita ed ho il ciclo.
Mi congedo dalla Preside ed esco sul pianerottolo dove almeno un filo d’aria, in questo frangente, scorre e dove il sole, che non ha ancora battuto sul muro, lascia un poco libero il respiro.

La scuola si chiama Tunas Harum Bangsa e significa i “bambini degli alberi”. E’ una scuola trilingue privata (a Giava vi sono tantissime scuole private; chiunque abbia anche solo una minima possibilità manda i propri figli nelle scuole private dal momento che in quelle pubbliche il servizio è pessimo) e  comprende materna ed elementari. 

Ecco un’altra insegnante che arriva e mi domanda perché stia sul pianerottolo… domande, quante domande! A mano a mano arrivano le altre insegnanti che comunicano in giavanese, la lingua parlata in una zona ben definita dell’isola di Giava e non afferro nulla di quanto viene detto. Mi viene comunicato di andare all'ingresso della scuola a salutare i bambini in arrivo, molto bene!
Arrivo alla porta d’ingresso e vedo disposte in linea e con la divisa scolastica una insegnante di lingua indonesiana, una di lingua cinese e vedo avanzare il mio corpo per andare ad occupare il terzo posto dell’insegnante di lingua inglese.
Di fronte a noi uno ad uno, composti, entrano i bambini accompagnati dai genitori. Ognuna di noi è tenuta a fare un saluto per ogni bambino che entra: i bambini della materna si salutano porgendogli la mano destra e quelli delle elementari congiungendo le mani davanti al petto. Se un bambino porge la mano sinistra è tassativamente vietato ricambiare. Si deve insegnare da subito ai bambini a non usarla, senza però motivarne il perché.

Una digressione:
In Indonesia la mano sinistra viene usata solo per lavarsi le parti intime. Non si usa la carta igienica e per pulirsi, in tutti i bagni, vengono messi a disposizione un secchio o una vasca pieni d’acqua con vicino un pentolino di plastica con il quale si prende l’acqua dal secchio per lavarsi. Viene da subito insegnato a prendere il pentolino con la mano destra e a lavarsi le parti intime con quella sinistra e allo stesso modo viene insegnato ad usare esclusivamente la mano destra per qualsiasi tipo di rapporto sociale. Nessun indonesiano vi passerà mai un qualsiasi oggetto con la mano sinistra o fermerà mai un taxi con la mano sinistra perché sa che il taxi tirerà dritto. E’ da grandi maleducati usarla nei rapporti con gli altri.

Dunque pongo estrema attenzione, ogni mattina, e tengo la mano sinistra lunga sul fianco. Un paio di volte mi è sfuggito di rispondere spontaneamente al saluto mancino di questi minuscoli bambini allungando la mano sinistra: milletrecentosessantanove occhi puntati addosso! Scusate, scusate tanto!
Finita la cerimonia quotidiana dei saluti che dura circa mezz’ora (dato che le classi sono 15) inizia la seconda cerimonia: il saluto alla bandiera. Nel grande prato all’interno della struttura ciascuna classe viene fatta disporre in fila indiana, una accanto all'altra, dalla materna alla quinta elementare in ordine crescente. Di fronte alle classi così disposte vi sono i tre membri fondatori dell’istituto privato e al loro lato destro, a turno, tre insegnanti e tre bambini pronti a leggere e guidare la cerimonia.
Parte il distaccamento di tre bambini della 5 elementare, in divisa, che marciando si posiziona davanti la Preside facendo il saluto militare, dunque portando la mano destra sul lato destro della fronte. Lei ricambia. Una delle maestre preposte all'atto, legge la Dichiarazione di Indipendenza Indonesiana e subito parte l’Inno Nazionale. Tutti (le classi, le maestre e il corpo dei collaboratori scolastici) si pongono sull'attenti e portano la mano alla fronte, con un saluto militare che riverisce l’innalzarsi, per mano dei tre bambini che tirano la corda sul palo altissimo, della bandiera della Repubblica dell’Indonesia. Qualcuno si gira per vedere se faccio lo stesso, inclusi i bamini; non sono assolutamente abituati alla presenza di una bule.

(Per vedere il significato di bule vedere l’articolo dal titolo “Ardi”)



mercoledì 10 dicembre 2014

La Vie en Vélo

A qualcuno un giorno sarà, forse, capitato di imbattersi improvvisamente - tra le vie della città - in qualche orda festosa di ciclisti, chiedendosi da dove fossero sbucati, chi fossero e, soprattutto, dove andassero: per chi ancora se lo stesse chiedendo, ha avuto un incontro ravvicinato con la Critical Mass.
   La Massa Critica è un raduno spontaneo di persone (non necessariamente sportive) che scelgono la bici come mezzo di trasporto, spesso come unico mezzo di trasposto! Particolarità di questo movimento è di essere di difficile definizione proprio perché non vi è una struttura organizzativa o gerarchica. A differenza dei ciclisti della domenica che fanno uscite fuori porta e perlopiù in fila indiana, nella Critical Mass l’uscita è indoor; si pedala dunque internamente alla città stessa nella quale quotidianamente ci si sposta e senza seguire l’ordine della fila indiana: viene occupata tutta la corsia stradale.
Il messaggio, comune, che si vuole portare quando ci si raduna e si comincia a pedalare in massa è la visibilità, all'interno delle città dove spesso le macchine la fan da padrone e le bici te le fa il ladrone.
Questa ricorrenza molto attesa tra il popolo del ciclismo urbano lo è meno per gli automobilisti che ne restano ai margini, dove i margini son quelli creati intorno ad una scia di velocipedi che attraversano vie, vicoli e viali della città. Non vi è mai un percorso stabilito, tutto viene deciso sul momento da chi si trova in testa al gruppo. Ognuno è libero di andare in testa e proporre un percorso e così via.
Una data a cadenza mensile (nella legge non scritta è ogni ultimo venerdì del mese) che sta vivendo il suo undicesimo anno nella città di Roma.
Appuntamento e luogo sono gli unici punti fermi di questa massa in movimento: ore 18.30 a Piazza Vittorio.

 Questa volta arrivo puntuale, per pregustare l’inizio. Non si spacca mai il minuto per la partenza, questo per dare modo ai partecipanti di radunarsi e incominciare a fare massa da fermi. E’ una delle parti più belle per me. Lentamente il marciapiede di Piazza Vittorio comincia a prendere la forma di tante ruote da pista, da strada, da sterrato, da down hill. Telai degli anni 80 si mischiano alle più moderne pieghevoli e telai ‘cancello’ (come vengono scherzosamente chiamati da qualcuno) si fanno strada tra le più preformanti bici a scatto fisso. Qualcuno, come me, ha ridato vita ad una Graziella.
Uno spazio di scambio, di dialogo e di condivisione. Il potere della bicicletta è grandissimo: raduna in maniera trasversale tutta la società. Ci sono bambini, adolescenti incuriositi, trentenni speranzosi,  genitori combattivi, anziani esemplari. Si, ci sono anche gli hipster!
Non esiste differenziazione di sorta che regga quando si è in sella, non esistono categorie lavorative che creino differenze nel dialogo; la bicicletta unisce tutti sotto lo stesso volere/valore: pedalare.
Si parte, si sale verso la Stazione Termini per poi svoltare a sinistra e, dopo essersi lasciati Piazza dei Cinquecento sulla destra, andare in direzione di Piazza della Repubblica.
Girare intorno alla Piazza e poi scendere su Via Nazionale e come da rituale passare sotto il Traforo Umberto I: c’è sempre esaltazione quando si passa sotto il traforo perché ogni voce rimbomba e ogni campanello trova eco. Video, fotografie e impennate su una ruota; qualcun altro si mette in piedi sui pedali.
La massa poi continua dritta fino a Piazza del Popolo dove si compatta, si ferma cinque minuti per una chiacchierata e riparte alla volta della Tangenziale Est. La critical mass si rende visibile ovunque, non solo tra le strade del centro perché i ciclisti sono ovunque, soprattutto nelle periferie.

Si pedala per migliorarsi, perché si crede  che dal momento in cui si è dotati e si è in grado di usare braccia e gambe tanto valga muoverli per spostarsi in autonomia totale. Si pedala per amore dell’aria, si pedala per amore delle tasche, si pedala soprattutto per riappropriarsi degli spazi. Lo spazio è di chi lo vive e allora una volta al mese coloriamo la nostra città di tanti telai, portando un messaggio di mobilità nuova, viva.


Ride on.

                                            

domenica 30 novembre 2014

Ardi

“Andiamo a cena?”

“Vai con Ardi, lui vuole mangiare”.
Volevo giusto stare con Ardi quella sera dato che, probabilmente, sarebbe stata l’ultima sera in cui avrei avuto modo di scambiarci due chiacchiere: l’indomani ognuno sarebbe rientrato nella propria città.
Pochi passi; mi scorta verso il warung che è un attività di lavoro familiare, solitamente riguardante la vendita di cibo e bevande. Sono aperti giorno e notte e costituiscono parte essenziale della vita indonesiana. Un warung offre cibo locale a prezzi molto bassi. Possono essere stabili o ambulanti, montati su biciclette o becak o di fronte l'ingresso della propria casa. Ardi lo aveva precedentemente adocchiato per me, dice, dal momento che aveva piatti vegani.
Ci sediamo, ed inizia il prevedibile interrogatorio da parte della ibu di turno. 

(In Indonesia davanti a qualsiasi nome, o per rivolgersi a una qualsiasi persona della quale non si conosce il nome, vengono usati 4 diversi termini a seconda dell’interlocutore:
ibu, per le donne anziane o alle quali si vuole portare rispetto;
mbak, per le donne di pari età o amiche
pak, per gli uomini anziani o ai quali si vuole portare rispetto;
mas, per gli uomini di pari età o amici)

“E’ la tua fidanzata?”
“No, è una mia amica, l’ho accompagnata perché è una bule”.
La mia presenza, seduta al fianco di un ragazzo/uomo indonesiano presso un warung, viene giustificata esclusivamente dal fatto che io sia una bule.
Mentre scrivo, mi rendo conto di quanti termini costituiscano il fitto tessuto di una viva quotidianità in Indonesia. Bule significa straniero, ma non significa solo straniero: significa altro, significa ricco, significa fortunato, significa possibilitato. Alcuni bule che stanno provando ad integrarsi in Indonesia soffrono questa espressione, io ho imparato a farne autoironia per sopperire.
“Dari mana?” (da dove viene?)
“Dari Itali” (dall’Italia)
“Perché ha i capelli corti?”
A quel punto intervengo, stanca -come quasi sempre avviene- di sentire domandare alla persona di turno che mi accompagna domande che potrebbero essere rivolte a me: “Panas sekali Ibu” (faceva troppo caldo, Ibu). Per la prima volta ibu poggia lo sguardo su di me.
C’è un lungo sguardo. Le mostro una foto di quando avevo i capelli lunghi. Mi dice di farli ricrescere.
In Indonesia i capelli mantengono l'appartenenza al Divino. Quando decisi di tagliarli non avevo considerato, ignorandolo, l’erotismo quasi sacro a loro attribuito e non avevo considerato quanto fosse assurdo per loro tagliare oltretutto capelli biondi e ricci. Alcuni ragazzi, in altre località del Paese, son stati arrestati a seguito di alcuni tagli di capelli e sottoposti a riti di purificazione islamici.
Ordino bevanda e piatto preferiti (es jeruk dan gado gado) ed ordina anche Ardi. Il dialogo adesso è a tre e son più rilassata.
Ibu è una donna bellissima, con lunghi capelli e grandi occhi neri, non porta il velo lei.
Le donne indonesiane si tengono sempre attive e mostrano meno anni di quelli che hanno solitamente. Lei ne avrà avuti più di una cinquantina. Non l’ho fotografata perché era in tenuta da casa e so che non me lo avrebbe concesso. Le Ibu soprattutto, prima di essere fotografate, eseguono lunghe procedure e può capitare passi la voglia di fotografarle. Si cambiano abito, chi può si trucca, chi porta il velo se lo sistema: danno molta importanza al gusto, all'immagine.
Ma lei era in tenuta da casa, dato che il suo warung era allestito davanti l’ingresso della stessa.
Si alza il vento per la prima volta dal giorno del mio arrivo in Indonesia; i piatti, preparati amabilmente, sono pronti.
Consumiamo il pasto lentamente, ringraziamo, salutiamo, ci alziamo, incominciamo a camminare verso l’interno dell’isola.
Resto sola con Ardi.
Ci imbattiamo in un rito con tanto di musica e sfarzi, dunque chiedo ad Ardi di cosa si tratti: circoncisione.
Ardi è musulmano, quindi circonciso. Senza pensarci due volte (e chi mi conosce veramente sa in quale modo) gli chiedo: sapresti descrivermi come vivi il piacere nel rapporto sessuale essendo circonciso?
“Sono vergine. La mia sessualità la riserverò solo alla mia futura moglie”, risponde risoluto interrompendo il dialogo.
E' lo scocco della mezzanotte per Cenerentola, non per la sua scelta di certo, ma per l’invasione che ho sentito di aver compiuto con quella domanda inopportuna.
Per un attimo mi son distratta.





Ardi